Cannibali e assassini fra l’America e la Padania – Tre racconti di Iannozzi Giuseppe

Cannibali e assassini fra l’America e la Padania

Tre racconti di Iannozzi Giuseppe

Johnny Cash

IL CANNIBALE DELLA PADANIA

La macellazione era stata più facile del previsto. Tutto liscio come l’olio. Adesso il pezzo stava appeso a un gancio nella cella frigorifera. Tirò un sospiro di sollievo, e felice si pulì le mani sporche di sangue sul grembiale. Uscì e chiuse la cella frigorifera, poi diede una rapida occhiata alla temperatura segnata dal termometro: la carne si sarebbe conservata a lungo in ottime condizioni.
Contento come una pasqua, sorriso a trentadue denti, era bell’e pronto a disporsi dietro al bancone.
Era ormai quasi l’ora di aprire al pubblico. La sua macelleria non aveva mai perso un giorno, mai chiusa per malattia o altre seccature.

Da Ivo il Macellaio c’era sempre la coda nonostante il paese contasse poche anime. Qualcuno sempre si inventava una necessità superflua pur di cacciarsi davanti al bancone di Ivo, il quale non lesinava in gentilezze: una certa affettazione femminea faceva mordere a sangue le labbra di più d’una donna già in menopausa. Le ammaliava Ivo le donne con il taglio dei suoi occhi da orientale nato e pasciuto nella Padania, tirato su a milanesi e Barbera. Non erano solo le stagionatine ad affacciarsi al suo bancone: anche prestanti quarantenni e non di rado ragazzine spedite dai loro padri a fare commissioni. Lui sempre mostrava a tutte il suo sorriso migliore, una fila di denti bianchi come la neve.

Ivo non era ben visto dai maschi. In paese, quando nelle feste comandate si portava in piazza, nessun uomo gli rivolgeva la parola; i più educati, in segno d’un vago saluto, si limitavano a toccarsi il basco inchiodato in testa. Ivo non lo si era mai visto in compagnia dei paesani, nemmeno a bere un bicchierino. Il suo bicchiere di rosso se lo scolava da solo, mentre due o tre comari gli facevano l’occhiolino appostate davanti all’entrata del bar, facendo finta d’esser capitate lì per puro caso. Ivo si accorgeva subito degli sguardi, alzava allora il bicchiere nella loro direzione, sorrideva e poi buttava giù, consapevole che il suo pubblico lo osservava con attenzione maniacale. Anche se non ne avevano le prove, i vecchi del paese e non solo, non nascondendo affatto l’invidia, dicevano che Ivo doveva essersene fatte un bel po’ di baldracche, alla missionaria o alla pecorina, nella sua macelleria. Ridevano poi, ma non di gusto: avessero potuto gli avrebbero spaccato ben bene il muso al macellaio, come minimo. Ma non si poteva: nessuna aveva mai denunciato un’attenzione di troppo, e così Ivo continuava a tenere viva la macelleria intascando ogni giorno danari e sorrisi. Brutta storia davvero essere costretti a vivere in un centro di poche anime con un solo macellaio!

A domeniche alternate uno dei vecchi tirava le cuoia e per quanti pochi fossero, per assurdo pareva che crescessero di numero a ogni funerale. La piccola chiesa tirava dentro il feretro e le panche venivano presto occupate da una lunga processione di veci sdentati e con le cataratte. Ivo non si perdeva una sola funzione. I veci, quando se lo trovavano in mezzo ai piedi, si toccavano i coglioni rinsecchiti e cercavano, per quanto gli era possibile, di stornare lo sguardo da quel macellaio che pareva proprio un Angelo Caduto. Dopo la predica del prete, Ivo seguiva la bara fino al cimitero e se ne andava solo quando il defunto era stato sepolto sotto due metri buoni di terreno.
Dopo ogni funerale regnava un po’ di mestizia, che però faceva presto a dileguarsi: le donne entravano in macelleria abbattute e ne uscivano rincuorate con nella sportina un mezzo chilo almeno di carne fresca, appena macellata.
Non uno si era mai interessato sul serio riguardo  alla provenienza delle carne. Si sapeva che Ivo teneva due vacche, un maiale e due capre forse, ma erano sempre lì, al loro posto a pascolare in un praticello, animali invero magri, magrissimi, che a macellarli c’era da guadagnarci solo ossa buone per i cani. Quando un vecio gli si era fatto sotto per sapere, Ivo gli aveva spiegato con impassibile cortesia che lui la carne la macellava con le sue mani e che per questo nessuno si era mai lamentato. L’aveva poi licenziato con un sorriso. In capo a un mese il vecio aveva tirato le cuoia. Aveva passato i novanta da un pezzo, per cui nessuno versò lacrime più dello stretto necessario, giusto per salvare le apparenze in pubblico; e poi il morto non era nemmeno il più vecchio del paese, giusto uno dei tanti con qualche anno in più sul groppone rispetto agli ottantenni a loro modo arzilli, per via della lingua lunga soprattutto.

Un bel dì di sole, un po’ malavoglia Giulia, giovane laureanda in antropologia, era stata costretta dal padre a recarsi in macelleria per prendere delle fettine, altrimenti la mamma chi l’avrebbe sentita senza la sua cazzo di milanese! Ci sarebbe andata da sé se solo non si fosse beccata la spagnola, poco ma sicuro: e febbre o non febbre, la mamma di Giulia alla milanese di Ivo non ci rinunciava. Una gran rottura di coglioni, il padre glielo aveva detto papale papale alla figlia, che, commossa dall’uomo sì tanto nervoso e abbattuto, alla fine si era convinta.
La macelleria puzzava di carne, di sangue: Ivo doveva aver macellato da poco. L’odore dolciastro della morte navigava nell’aria e attaccava le narici in profondità. Giulia non riuscì a reprimere un brivido. Strinse al petto il libro, uno studio sul cannibalismo e su Issei Sagawa. Quando si accorse di stringere con troppa forza quel libro orrido, il suo cuore perse un colpo. Ivo si stava strofinando le mani sporche di sangue sul grembiale. Sorrise alla giovane, scusandosi: “Perdoni il mio aspetto, ho appena finito di macellare.” Giulia si limitò a balbettare un . Attese che il macellaio si rassettasse un minimo e chiese il solito, ovvero mezzo chilo abbondante di fettine. Ivo si informò sulle condizioni di salute della mamma. Giulia gli disse che aveva la febbre, colpa della spagnola, ma che si sarebbe ripresa. Ivo non la contraddisse, però le sorrise in un modo sinistro che le fece venire le gambe deboli. Raccolse il pacchetto che il macellaio le aveva messo proprio sotto il naso, pagò, poi, tremando, scappò via manco avesse il diavolo alle costole.

Ivo raccolse il libro che Giulia aveva lasciato cadere sulle mattonelle della macelleria: “A History of Cannibalism: From Ancient Cultures to Survival Stories And Modern Psychopaths” di Nathan Constantine. Lo sfogliò per un paio di minuti, più divertito che incuriosito. Infine lo depose accanto alla cassa: non era detto che Giulia non tornasse a reclamare l’oggetto… in fondo, in fondo la Padania era una pianura dove non succedeva mai niente che meritasse attenzione. Ivo sospirò.

RAYMOND CARVER, CHARLES BUKOWSKI E GLORIA!

L.A. brulica di pazzi che si buttano in strada per ripetere la solita solfa: “La città degli angeli sprofonderà. Salvatevi!”
Cercano di seppellirsi in un lavoro ben retribuito, ma non c’è scelta: o accetti di morire – con la schiena curva su una scrivania – per pochi dollari, o punti tutto quello che non hai su un paio di cavalli e poi, vada come vada, ci bevi su.
Ray C. sta in una roulotte puzzolente, beve di brutto e fuma ancor di più mentre, con le dita grassocce, pesta i tasti sulla macchina per scrivere. Ha buone idee, non è fortunato però. L’editor che si è trovato, un certo Gordon, gli sputa sempre in faccia che non sa troncare un racconto. Ray è un cavallo di razza, un Tolstoj americano, ed è per questo che Gordon lo odia.
Sono stato dal mio amico R.C. Abbiamo bevuto mezza bottiglia di rosso annacquato. Abbiamo parlato poco, del più e del meno. E alla fine l’ho lasciato da solo, perché me l’ha chiesto quasi supplicando: a tutti i costi vuole, e deve, provare a mettere nero su bianco un racconto che, da troppi giorni, lo sbrana in un’emicrania ossessiva togliendogli il respiro.
In tasca ho giusto pochi dollari. Farei forse bene a seguire l’esempio del mio amico, rintanarmi nella mia topaia in affitto e scrivere come un ossesso e morta lì. Ma c’è un gran bel sole e le donne in strada non aspettano altro che qualcuno le noti.
La seguo con gli occhi già da un bel pezzo. Impossibile che non si sia accorta di me. Continuo a fissarle il fondoschiena. Ogni tanto si gira e mi butta un’occhiata addosso. Non sorride. Fa la misteriosa. Il gioco la eccita.
Continuo a starle incollato al culo.
All’improvviso si ferma. Fermo anch’io il passo.
Per un po’, in silenzio, ci sfidiamo sotto il sole.
“Hai un naso importante”, dice lei, rompendo il nostro silenzio fatto di sole occhiate.
“E tu un culo da paura”, ribatto io.
Accenna un sorriso. Ha un corpo butirroso, biondo di sole… una manza che fa sangue. E’ una di classe e cerca solo un’avventura senza complicazioni. Glielo leggo in faccia.
“Ce l’hai una casa?”
“Sì e no.”
“Che fai?”
“Non faccio niente. Quando mi annoio scrivo. E tu?”
“Io mi annoio, e oggi in particolar modo.”
“Hank. Per gli amici Hank e basta.”
“Per gli amici Hank e basta”, ripete lei. Sospira. “Gloria. E mi piace che un uomo mi abbracci forte.”
Non me lo faccio ripetere. Mi porto al suo fianco e le cingo la vita. Gloria sorride.

Non se la passa male Gloria: sta in un appartamento di tutto rispetto. Mi racconta che è un regalo del marito morto anzitempo. Non dovrei crederle. Grattandomi la zazzera, smozzico un poco convinto. Sorride. Si spoglia con naturalezza.
“Ci vorrebbe del vino”, sputo lì, leccandomi i baffi.
“Hai ragione, Hank.”
Gloria si squaglia in cucina per meno d’un minuto e torna con in mano due bottiglie di rosso, di quello buono. Ce le scoliamo sul divano.
“Hai un naso importante!”, osserva Gloria ridendo di gusto, con malizia. “Te l’ho già detto giù in strada”, aggiunge, titillandosi la passerina.
“Ti piace?”
“Un naso così non è comune.”
Lei sorride, io no. Non ci penso su, le salto addosso. Gloria si lascia andare. Non dice una parola.
Scopiamo per un’ora buona, dopodiché, esausti e sudati, ci scolliamo.
Gloria mi sorride mentre le accarezzo le gambe ben tornite, anche se sento il bisogno di svuotare la vescica.
“Dov’è il bagno?”
Gloria tace per mezzo secondo: “Mettimelo in culo, Hank. Non hai bisogno di andare in bagno, non con me.”
Mi mostra il culo, una vera favola di carne che aspetta di essere penetrata. Glielo ficco dentro.
Lei mugola. Le piace sentirlo dentro di sé e le piace che le faccia un po’ male.
“Amore, liberati!”
Spingo dentro, con tenerezza selvaggia e libero la vescica. Lei grida che è bello, che le sto facendo male, che è così che le piace il gioco. Eiaculo forte. Non glielo leverei più dal culo, ma Gloria si libera, non regge più tutto quello che ha dentro. Si alza in piedi barcollando: lungo le gambe le scivolano sottili rivoli di sperma e di urina. Sono eccitato, non riesco a non esserlo. Mi alzo anch’io e glielo sbatto di nuovo dentro, in culo. Non ho mai amato troncare sul più bello, proprio no.

LUCCIOLA IN CROCE

Quando vai con una lucciola, non t’interroghi, non ti stai a preoccupare se ha sentito freddo, se lo sente ancora. Stai solo attento che sia in carne e che non abbia in volto i segni d’una malattia venerea. La vedi sul ciglio della strada, e se non sorride, passi oltre. Tutte, o quasi, calzano stivali in pelle che arrivano fino al ginocchio, e camminano su tacchi vertiginosi: sculettano provocatoriamente, e lentamente muovono pochi passi da un punto all’altro del marciapiede che è la loro casa. Quando vai con una lucciola non t’interroghi se ha i piedi freddi e non ti preoccupi dei tuoi: solo vuoi fare e venire bene, e poi scappare nella notte.

Gabriel s’ammirò nello specchietto retrovisore. La macchina parcheggiata, sprofondata nel cuore della notte, e solo la debole luce della sigaretta fra le labbra e il pallore della luna alta in cielo, obnubilata però da un pesante alito di nuvole e nebbia. Riusciva a vedere a malapena l’abbozzo del suo sorriso: gli bastava per sapersi vivo e maschio, vanitoso.

* * *

“Tu, Giuda, mi hai già tradito. E mi hai già amato.”
“O Gesù, perché dici questo? Sei crudele.”
“Perché tu sei il mio preferito, il fratello che porterà la croce dell’Umanità, una croce ben più pesante della mia.”
“O Gesù! Ho fame.”
“Prendi un po’ di pane.”
”O Gesù! Ho sete.”
“Bevi un po’ di vino.”
“O Gesù, non basta! Non riesce l’anima mia a saziarsi mai.”
“Allora baciami.”
“Baciarti?”
“Io, così vile, dovrei baciare il mio Maestro? No, non posso farlo.”
“Allora lo farò io. Per te!”

* * *

Gabriel s’aggiustò la patta: era orgoglioso di sé. La Lucciola era tornata sul ciglio della strada: sculettava cercando d’attirare l’attenzione d’un altro cliente. Lui l’aveva pagata per stare quindici minuti con il suo corpo. Non s’erano detti una sola parola. L’aveva presa alla boia d’un giuda, in piedi, fra le fratte dove aveva nascosto la macchina; poi l’aveva sbattuta sul cofano ancora caldo. Era venuto e lei aveva finto d’avere un orgasmo; stava bene così, perché queste erano le parti assegnate a lui cliente e a lei prostituta. Le loro anime non s’erano curate d’incontrarsi, neanche per finta… per distrazione. Che importava tutto il resto? Niente. Lui aveva goduto, lei aveva finto. ‘L’uomo è un animale, prende il suo piacere, non si cura di quello dell’amante comprata sul ciglio della strada, né si preoccupa di usare delicatezza alcuna o di chiederle di sé, se si sente bene o male, se ha i piedi freddi o caldi.’ Così pensò Gabriel mentre infilava la chiave e dava gas: il motore era ancora caldo, non era stato spento troppo a lungo, e la macchina non faticò a uscire dal folto delle negre fratte. ‘Boia d’un Giuda, il cofano era quasi più caldo di quella dannata puttana. E’ così che dev’essere.’

La strada davanti a sé: premere sull’acceleratore, sterzare prima a destra e poi a sinistra e ancora e ancora, e respirare e inspirare e sentire il cuore battere in petto.

I lampioni scivolavano oltre la vista, e si ripetevano in continuazione: sembrava che non dovessero finire mai. Con le mani sul volante, sorrise a nessuno: era quasi arrivato a casa. Si sentiva bene. Presto avrebbe abbracciato la moglie, Maddalena: le avrebbe sussurrato qualche frase dolce all’orecchio e dopo, prima d’addormentarsi, lo avrebbero fatto. Si sarebbero stretti l’uno all’altra; e che il mondo di fuori andasse pure a puttane, perché a loro bastava stare insieme abbracciati al caldo, avvolti dalle lenzuola, dalle coperte.

Maddalena gli aprì la porta di casa: “Sei in ritardo…”
“Traffico, sempre traffico”, si scusò Gabriel, “non puoi neanche immaginare quanto.” E la baciò sulla bocca. Lei, subito, si ritrasse disgustata.
“Sai di dolciastro.”
”Che significa?” Ma aveva già strabuzzato troppo gli occhi perché la moglie non notasse la paura sul volto dell’uomo.

* * *

“E tu che le hai raccontato?”
“Niente.”
“Come niente?”
Gabriel buttò giù l’ultimo sorso del suo whisky, poi s’accese una sigaretta e ne offrì una all’amico.
Rimasero in silenzio per un po’, coi volti muti quasi sprimacciati sul bancone del bar, mentre il barista si dava da fare dietro ai clienti, sbraitando contro la cameriera tutta sudata per via dell’aria stantia e del fumo, che stagnava e pareva nebbia.
Petrus era un mezzo russo, robusto, quasi completamente calvo: la mascella era squadrata, troppo, e lo faceva sembrare un po’ tanto stolido. Si passò una mano sulla pelata e puntò contro Gabriel l’indice: “Tu la devi mollare. Quella è una baldracca.”
Gabriel continuava a tacere. Solo tirava boccate di fumo.
“E’ una di quelle, lo sai meglio di me. L’hai sempre saputo.”
Gabriel si limitò a svolazzare un gesto nell’aria, un gesto con la mano che solo poteva significare qualcosa d’indefinito.

* * *

“Padre, perché io, perché proprio io dovevo essere tuo Figlio? Non potevi scegliere un altro? Giuda, per esempio. Lui sarebbe stato quel figlio perfetto che sempre hai desiderato. Ma tu no, tu hai voluto che fossi io a doverti pregare per aver salva la vita. Perché? perché la Croce? No, Padre, non è giusto. Non è questo che volevo, essere tuo Figlio. La mia vita non conta forse nulla? Tu muto resti come le pietre che hai creato, come quelle che m’hai insegnato a prendere sulla schiena: il dolore però, quello resta anche se il livido, col tempo, passa. Credi forse che potrò dimenticarlo? No, non potrò. Ecco come m’hai ridotto: un uomo che parla a uno che non risponde. Le uniche risposte che ricevo sono l’eco della mia stessa voce. Oh, non c’è bisogno che t’invochi! Se solo lo volessi, potrei fuggire lontano e accompagnarmi ai passi di Maddalena. Oh, se solo non fossi io! E io non sono io: capisci? Io sono tuo Figlio… tu non mi rispondi però, ne deduco che sono niente per te. Se così è, chi o cosa m’impedirebbe mai di prendere una strada che sia ben lontana dalla Croce? Tu, forse? No. Tu non hai potere. Solo io posso decidere se restare o partire. E allora io decido che è tempo d’andare lontano dove non ci sarà più la mia eco a rispondermi in tua vece. Ecco, prenderò la strada e lascerò Giuda. Prendi lui. E’ un figlio perfetto. E’ arrivato al punto di tradirmi per assecondare i tuoi piani. Io non ti tradisco, non più di quanto abbia già fatto Giuda con me. Ecco, Maddalena mi piange. Sento il suo pianto nelle vene e il mio cuore solo chiede di spegnere quel pianto di fuoco che tormenta la donna e l’anima mia.”

* * *

“Andrai a Lucciole anche stasera?”
“Sempre a fare domande.” Gabriel s’abbottonò l’impermeabile. “Sta cominciando a piovere.”
Petrus lo squadrò torvo: “E tu a evitarle!”
Scoppiarono entrambi a ridere: Gabriel aveva trovato divertente quel evitarle e anche Petrus, forse per questo ridevano. Mica ne erano sicuri!
“La lascerai?”
Gabriel si limitò ad alzare le spalle. “Sei il solito cinico”, continuò Petrus, carezzandosi pensieroso la mascella: “indendo…”
“Stammi a sentire”, l’interruppe Gabriel leggermente infervorato, “non intendo mollare Maddalena solo perché m’ha buttato fuori di casa per un po’ di dolciastro. Sarà pure una di quelle, ma non lascerò che sia qualcun altro a scoparsela. T’è chiaro il concetto? Tu dimmi pure cinico quanto cazzo vuoi, qualunque cosa possa significare, vedi però di non rompermi le palle.”
“Non c’è mica bisogno di scaldarsi tanto!”
“Io non mi scaldo, Petrus. Mai. Hai capito?”
Petrus mise su una faccia davvero poco raccomandabile: “Come cazzo vuoi tu, amico. Io dicevo solo per il tuo bene.”
“Lo so da me qual è il mio bene.”
Silenzio fra i due.
“La mia macchina è a due passi.”
“Sì, capisco!”, sbottò Petrus. “E’ ora che mi levi dai coglioni.”, aggiunse, passandosi una mano sul cranio pelato, bagnato.
“Ci si vede.”
“Certo.”
Gabriel lasciò l’omaccione da solo, immobile sotto la pioggia. L’osservò giusto il tempo d’un secondo: se ne stava piantato come una statua, mentre l’acqua gli scivolava addosso. I loro sguardi s’incrociarono per un breve momento, poi Gabriel prese a camminare con passo spedito. Raggiunse la macchina parcheggiata. Ed era già sulla strada a bruciare semafori.

L’autoradio gracchiava musica e parole: “I’ll tell you all my secrets/ But I lie about my past/ So send me off to bed forever more”. (*) Gabriel ripeteva le parole masticandole in bocca, mentre gettava rapidi sguardi, a destra e a manca, incontrando i volti delle Lucciole. Ne voleva una bruna che gli ispirasse fiducia, che fosse fintamente donna e bambina.
Ne adocchiò una: doveva essere molto giovane. Fermò la macchina.
“Come ti chiami?”, sparò con voce di rasoio.
“Lucilla.”
Spense il motore. Andava bene: era lei che cercava.
“Lucilla…”, ripeté addolcendo la voce, quasi facendo rotolare il nome della Lucciola sulla lingua, come una caramella al miele.
“Lucilla, quanto?”

L’aveva lasciata piangente e sanguinante in mezzo alle fratte. Ad un certo punto una rabbia belluina l’aveva investito: e una gragnola di pugni s’era scatenata sul fragile corpo di Lucilla. Mentre la tempestava di pugni e calci, le aveva gridato più e più volte: “Sei una puttana, solo una lurida puttana, come Maddalena.
Pestarla a sangue non gli era bastato: la rabbia nelle vene era ancora accesa.

Era di fronte all’uscio di casa. Quasi l’abbatté a forza di pugni. Nessuno venne ad aprire. Alla fine la sfondò con due possenti calci.
“Maddalena!”, gridò. Neanche l’eco della sua voce in risposta.
Entrò in camera da letto: le narici gli si dilatarono per assorbire l’odore dolciastro che era sparso in tutto l’ambiente. Era di sangue l’odore che penetrava in lui e lo feriva a morte. In un angolo c’era la sua donna pestata a sangue, più morta che viva. S’avvicinò a lei senza dire una parola e s’accucciò accanto a lei: e la strinse a sé in un doloroso abbraccio.
“Che è successo…?”, biascicò. Non c’era più rabbia nel suo sangue, solo una pesante stanchezza.
“Ho… voluto provare…”, mormorò, e tossì, sputando sangue e frammenti di denti: “Provare come ci si sente… a fare… la puttana…”.
Gabriel le passò una mano sui capelli arruffati, sporchi di sangue e sputi.
Non voleva sapere altro. Non ce l’aveva il coraggio d’accendere la luce per vedere meglio il volto della sua Maddalena. La fissò nel buio: era ridotta davvero molto male. Era sicuro che non avrebbe riacquistato mai più la bellezza d’un tempo: i lividi sarebbero guariti, ma sul suo volto sarebbe rimasto stampato per sempre il dolore.
La strinse più forte a sé: “Con chi?”
“Il tuo amico… Petrus…”. E chiuse gli occhi.
Sul volto di Gabriel due grosse lacrime presero a scivolare lentamente. Poi i singulti, forti, gli scassarono il petto; e altre lacrime, un vero stillicidio di dolorosa stanchezza.

Era quasi l’alba: una flebile luce penetrò attraverso la finestra. Gabriel abbracciava ancora Maddalena profondamente addormentata nella prigione del suo corpo di donna. La luce del sole gli inondò gli occhi ormai aridi dopo troppe lacrime.
“Padre, perché mi hai abbandonato?”, gridò come animale disperato: “…perché? Solo perché io ho abbandonato te?”
Tossì e pianse un’ultima lacrima: “Non avresti dovuto tradirci così, per Giuda!”

(*) Da Tango Till They’re Sore, Tom Waits (Rain Dogs, 1985): “Ti dirò tutti i miei segreti/ Ma mentirò sul mio passato/ E tu mandami a dormire una volta per tutte.”

Informazioni su Iannozzi Giuseppe

Iannozzi Giuseppe - giornalista, scrittore, critico letterario - racconti, poesie, recensioni, servizi editoriali. PUBBLICAZIONI; Il male peggiore. (Edizioni Il Foglio, 2017) Donne e parole (Edizioni il Foglio, 2017) Bukowski, racconta (Edizioni il Foglio, 2016) La lebbra (Edizioni Il Foglio, 2014) La cattiva strada (Cicorivolta, 2014) L'ultimo segreto di Nietzsche (Cicorivolta, 2013) Angeli caduti (Cicorivolta, 2012)
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