L’ULTIMA PARTITA – Giuseppe Iannozzi + promo ”Angeli caduti” (Cicorivolta edizioni) di Beppe Iannozzi

L’ULTIMA PARTITA

Giuseppe Iannozzi

tragedia Superga

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Sapevo che non avrei potuto fare granché per lui.
Quel giorno avevo deciso di cercare la vita, nonostante sapessi che avevo ben poco da darle: solo un cazzo di nulla. Accesi una sigaretta mentre la pioggia mi bagnava tutto: il cielo plumbeo piangeva lagrime di dolore, io lasciavo che mi scivolassero addosso con perfetta indifferenza. Tirai un paio di boccate, tossii brevemente, poi la sigaretta si spense; la gettai in una pozzanghera, annegandola per sempre insieme al mio sorriso.

Torino giaceva ai miei piedi, un cadavere su cui lasciavo le mie impronte criminali.
Passai oltre il quartiere San Salvario scontrandomi con robusti negri, che non mi degnarono d’uno sguardo, e mi portai sino in P.zza Castello. Lì rimasi ad osservare il viavai di tram e macchine. Erano passati parecchi anni dall’ultima volta che avevo attraversato la città. Almeno dieci anni buoni. Fissai brevemente la mia immagine nello specchio d’una pozzanghera: rughe che solo in parte gli spessi occhiali riuscivano a mascherare. Sulle tempie l’argento e negli occhi una luce spenta: avevo visto tanti uomini morire, e tutti avevano creduto – quasi innocentemente – che la vita non fosse semplice passaggio di cui non resta traccia. Ma io avevo da tempo maturato l’idea che l’unica traccia che l’uomo lascia di sé dopo la dipartita è il suo cadavere putrescente sepolto in due metri di terra. E un epitaffio. “Il 14 maggio 1949, alle ore 17:05, il trimotore Fiat n. 212 delle Aviolinee Italiane era contro i muraglioni del giardino a tergo della Basilica di Superga: trovano la morte trentuno persone. L’ultima partita, un’amichevole a Lisbona, fu l’ultima gloria. Poi solo nebbia e preghiere”, così andavo rimuginando. La pioggia avevo smesso di cadere e la notte era a un passo dai miei occhi. Ero stanco e un po’ annoiato anche.

Era in ritardo d’un buon quarto d’ora.
Quando si presentò davanti a me, lo riconobbi a stento: era il fantasma di sé stesso.
Ci stringemmo la mano in silenzio.
“Non posso fare niente per te”, esordii.
La mia vecchia conoscenza tirò un sorriso di rassegnato fastidio: “Sì, lo so.”
Morì qualche giorno dopo.

Adesso sono sulla sua tomba. Leggo il suo epitaffio: non è troppo diverso da tutti gli altri che mi circondano. Depongo sulla sua tomba una copia di Delitto e Castigo di Dostoevskij e piano ricordo: “Tutto dipende dalle circostanze e dall’ambiente in cui si trova l’uomo. Tutto è determinato dall’ambiente, l’uomo per se stesso non è nulla.”