Musica e Poesia attraverso le parole dei cantautori – Giuseppe Iannozzi

Musica e Poesia

attraverso le parole dei cantautori

Giuseppe Iannozzi

Neil Young

Neil Young

La musica, epifania e comunione delle genti sin dalle notte dei tempi, ha da sempre ricoperto un ruolo ben più che essenziale nell’evoluzione antropologica, della vita sociale: troppo spesso, la storia ha dimenticato di spiegare le ragioni della musica, dell’arte, del potere espressivo che essa è e racchiude. Eppure essa si è sempre accompagnata, nel bene e nel male, alla storia: non ci sono state guerre se non sotto l’urlo belluino dei primevi, quasi intonassero la gloria d’un Dio conquistatore; o sotto il rullio dei tamburi e il fracasso delle trombe, rumori, in alcuni casi musica, un jazz primitivo che come prana avvolgeva l’alma dei guerrieri, infondendo loro coraggio per accompagnarsi alla morte.

Le campagne militari sono state, se non il primo campo di prova, almeno il secondo dove la musica ha fatto “la storia della storia degli uomini”; i festini, dopo le guerre, hanno testimoniato di fronte agli occhi di re e imperatori, volgo e servi, che la musica può essere tanto una cosa semplicemente amara e dolce, come lo spirito, quanto cruda, come il sangue versato nel corso di innumerevoli guerre, nel corso dei secoli. Se agli albori della civiltà, la musica è stata intesa al pari d’una semplice percussione di tronchi e urla senza senso o quasi, l’uomo si è presto reso conto che la musica poteva esprimere l’agnizione del vivere umano meglio di quanto non potessero fare altre grezze arti quali la pittura e la scrittura. La pittura rupestre era difficile e una volta eseguita rimaneva un qualcosa di asciutto sulla pietra, mentre  scrivere era troppo difficile e solo molto più tardi gli scribi e alcuni eletti ne compresero la forza, una forza che per lungo tempo tennero nelle loro sole mani, un potere che agli ignoranti sembrava ‘magia’. Nel corso dei secoli la grammatica della scrittura fu arte di pochi: fu nelle mani di principi e re, del clero, e lingue come il greco e il latino la fecero da padrona per una lunga pezza, cioè fino alla caduta del Sacro Romano Impero. Il latino, sopravvissuto con più dignità al greco antico, divenne ben presto l’unica lingua riconosciuta dalla Chiesa del Vecchio Mondo; nel frattempo s’inventarono nuovi strumenti musicali e fra trovatori alla corte di re e imperatori e maestri di canto, la musica cominciò a sposarsi alla parola, alla narrazione, alla poesia. Per la prima volta nella storia dell’uomo, musica e parola trovarono una loro dimensione unica: ciò che con una non era possibile esprimere, l’altra rispondeva alle esigenze comunicative.
Il canto accompagnato dalla musica divenne arte, per quanto i barbari secoli medievali non riconobbero poi troppa importanza storica a questa evoluzione sociale; insomma, il Medioevo da sempre tacciato per esser stato periodo oscuro, aveva dato vita a una suprema forma d’arte, che, però, ironia della storia, non seppe riconoscere e relegò in un ambito più che mai folcloristico.
In tempi più recenti, ovvero all’inizio del ‘900, con il jazz e il blues, la musica è entrata a far parte del bagaglio culturale dell’uomo non per essere solamente accessorio bensì come Gestalt; la musica ha cominciato a legarsi alla poesia tanto da diventare, in alcuni casi, una sola forma artistica indivisibile. Se il primo passo è stato fatto con la musica classica, con quella da salotto, i primi del ‘900 hanno visto trionfare la canzonetta popolare, disprezzata dalla più parte degli intellettuali dell’epoca; tuttavia a seguito della I e della II guerra Mondiale, tutti finirono con il sentirsi davvero stanchi nei confronti delle positure intellettualoidi inscenate per assurda libera scelta o goffaggine negli ambienti culturali, tant’è che anche gli intellettuali, quelli con un po’ di sale in zucca, finirono con il ricusare la musica dedicata ai soli salotti. Il caso più brillante e commisto di musica, jazz, e poesia, nella prima metà del 900, trova un rappresentante esistenzialista di tutto rispetto, Boris Vian: con lui, la Francia non solo scopre la musica americana dei negri, dei poveri, degli emarginati, dei ribelli, ma prende anche le distanze da quella che fino ad allora era stata una poesia così classica da essere diventata oggetto di scherno persino da parte degli intellettuali più seri.
Arthur Rimbaud, Paul Verlaine, durante la seconda metà dell’Ottocento seppero staccarsi dalla tradizione poetica francese con un taglio netto, tanto da esser definiti poeti maledetti, non solo per i contenuti delle loro liriche, ma anche – e soprattutto – per il loro stile di vita sempre al limite, con i suoi alti e bassi. Soprattutto Rimbaud seppe infiammare, con la sua poesia strettamente legata alla sua immagine angelica-indemoniata dal destino maltrattata, una schiera di giovani del tempo e di nuovi giovani del Duemila, che ancora vedono nel poeta una Illuminazione. La poesia di Rimbaud è stata spesse volte citata da artisti musicali come Patti Smith, ma anche Pier Paolo Pasolini è stato fonte di ispirazione per la rockstar femminile più famosa del secolo; poesia, rock, sono diventati fra le sue mani e nella sua voce una sola energia, un elemento di rivoluzione per mettere a nudo le contraddizioni sociali del secolo appena passato. Se la poetessa rock Patti Smith ha saputo fare della sua musica poesia di e per la rivoluzione sociale, con grande sensibilità e raffinatezza, lo stesso non si può dire di Jim Morrison, leader incontrastato dei Doors. Jim Morrison, accecato dalla poesia di Arthur Rimbaud, era lui stesso un poeta maledetto e nel corso della sua breve vita, lo ha saputo dimostrare ampiamente, fino a smentire sé stesso entrando in contraddizione. Leggendo i testi delle sue canzoni non si può non tirare un sospiro di apprezzamento e di disgusto allo stesso tempo: alle volte si ha l’impressione di leggere il delirio di un matto, roba senza senso, una visione terribile fra cielo e terra alla William Blake (altro poeta stimato da Morrison). E’ difficile dire se Morrison fu solo un esaltato fatto di LSD, o se fosse un poeta all’estremo della sua creatività; fatto sta che di maledetto la sua condizione di vita aveva ben poco, a meno che non si voglia considerare l’abuso di allucinogeni un prodotto del diavolo, mentre è risaputo che le droghe sono vecchie quanto il mondo. In ogni caso, durante i caldi anni Sessanta, Jim Morrison ha rappresentato, per una larga fetta di giovani, un modello di vita, di poesia da imitare, spesse volte con risultati assai tristi: l’emulazione di un idolo eletto dagli uomini, giustappunto idolo per etichetta di moda, è l’unica vera maledizione per l’idolo stesso e per i suoi proseliti, una maledizione tutta terrena.
I poeti della Beat Generation, Jack Kerouac ed Allen Ginsberg in testa a tutti gli altri, per mezzo della loro poesia, hanno contribuito non poco all’evoluzione degli stilemi poetici americani ed europei; la loro poesia beat scritta a ritmo be-bop seguendo le tracce di interpreti mirabili del Jazz e del Blues quali John Lee Hooker, Muddy Waters, Charlie Parker, Louis Armstrong, ecc. ecc., è diventata presto una poesia con un suo ritmo, quindi molto adatta anche ad essere cantata. Michael Stipe, inimitabile poeta della generazione degli anni Ottanta quando tutto era imperio dell’immagine, con le sue liriche perfette e criptiche, mai personali, sempre incentrate su temi sociali, ha portato nel panorama rock una coscienza civile che gli anni Ottanta avevano dimenticato per prostituirla all’ipocrisia che la bellezza è tutto, una bellezza che oggi nessuno fatica a definire tragicamente kitsch, per quanto il buon gusto ancor oggi non è proprio di casa e nei palinsesti televisivi e nelle testate giornalistiche. Se Michael Stipe è una figura positiva del rock poetico, uno che canta di Kerouac e dei suoi amici senza farne degli idoli, senza porsi sul piedistallo della rockstar, il caso Kurt Cobain è praticamente all’opposto o quasi. I Nirvana, esplosi come fenomeno sociale all’inizio degli anni Novanta, loro leader Kurt Cobain, hanno ripreso un po’ il mito di Jim Morrison: la tragica morte per suicidio di Cobain ha formato nelle coscienze giovanili l’idea che il rocker, per essere tale, dev’essere drogato e quindi maledetto, e se così non è, deve diventarlo per continuare ad essere una icona del business musicale. Cobain certo non voleva essere una icona per nessuno: semplicemente era un ragazzo diventato famoso troppo in fretta, un poeta mancato (le sue liriche non brillano di certo per poeticità), un uomo con tanti problemi psicologici (e di inserimento sociale) e affettivi, la cui unica evasione, insieme alla droga, fu la musica, il grunge. Ma alla fine, neanche musica e droga bastarono più per tenerlo in vita: è probabile che Kurt Cobain si fosse reso conto della sua triste condizione e abbia così preferito farla finita una volta per tutte, sicuro che né la droga né la musica avrebbero potuto salvarlo da sé stesso. Per molti Cobain rappresenta lo stereotipo del giovane degli anni Novanta, un giovane disilluso la cui agnizione nello stato sociale si può solo trovare nella morte.
Gruppi come Take-That, Spice Girls, Backstreet Boys hanno preso subito possesso della scena musicale della seconda metà degli anni Novanta: questi gruppi non hanno mai trasmesso alcun messaggio poetico o sociale, hanno invece fatto sempre affidamento alla loro immagine, si sono proposti come icone, e i giovani, stanchi di inutili icone mortali, hanno finito con l’identificarsi in queste nuove icone musicali propagandate immortali. Le boy band subito sono state tacciate di non saper cantare (il che mi sembra innegabile), però hanno raccolto intorno a loro una massa sconfinata di giovani: il loro successo è dovuto forse al fatto che non sono poeti e quindi non hanno nulla da dimostrare al mondo, tranne il fatto che sono tutti belli e patinati.
Intanto, se le boy band si sono accaparrate una larga fetta del mercato musicale, qualcuno si è sentito veramente offeso per l’ottusità dei giovani: è il caso di Marilyn Manson, la cui musica e i testi delle canzoni hanno fatto inalberare non pochi moralisti e benpensanti. E’ innegabile che Marilyn Manson ha ben pochi scrupoli a dichiarare le sue opinioni su tutto, sempre senza mezze misure e senza garbo: la sua immagine è quella di non averne, se non nel senso classico di rocker maledetto con la coscienza di ammettere che se proprio dev’essere odiato, che almeno lo si faccia per i motivi giusti. Marilyn Manson, nella sua autobiografia confessa spassionatamente il suo anticlericalismo – non che non lo abbia mai fatto apertamente in altre occasioni -, sputa addosso all’ipocrisia della società americana sempre disposta a credere ai predicatori in TV e ai talk show della tv via cavo, quindi se il mondo sculetta dietro a sesso politica e religione, per Manson, tutto ciò è la peggior droga che un giovane possa assumere. Ora, senza intentare una apologia a favore di Marilyn Manson, perlomeno occorre riconoscergli che esprime molto – ma molto teatralmente – il disagio giovanile di una società americana, dove la distanza fra povero e ricco sta diventando quantomeno pericolosa e assurda; non a caso la criminalità giovanile tocca vette (percentuali) da paura, e i giovani tossici sono uguali e tra i figli degli homeless e tra quelli dell’high society. Poi Manson è il primo a contraddirsi, nei fatti e nelle parole: ma fa parte pure questo del gioco d’essere ormai una rockstar.
Altri gruppi come gli U2 e i Cramberries esprimono un messaggio diametralmente opposto a quello di Marilyn Manson, un messaggio positivo e di speranza. Bono Vox, leader degli U2, è un poeta positivo così come Dolores O’Riordan, voce dei Cramberries. Gli U2 sono da sempre stati un gruppo rock politico ma senza forti pregiudizi; negli ultimi anni hanno fatto un gran lavoro soprattutto diplomatico per abbattere i confini delle bandiere sociali e politiche, adoprandosi così per la promozione di cause sociali; e le loro liriche, sempre in bilico fra poesia e canzone, sono un sommario esempio di civiltà e responsabilità umana nei confronti dei propri fan. I Cramberries, pur non trasmettendo contenuti politici, amanti di una poesia esteticamente sofisticata (non a caso Dolores O’Riordan ammette la grande influenza da lei subita grazie alla lettura del poeta William B. Yeats), guardano al mondo in maniera positiva, forse solo un po’ troppo idealizzato, ma ciò non compromette il loro spessore artistico. E in questa carrellata di personaggi, impossibile non ricordare il poeta per eccellenza Bob Dylan (quello degli anni Settanta, quando era un poeta vero, non il Dylan di oggi…); e poi, ancora, il cantautore Neil Young, ma anche Tom Waits, vecchi dinosauri del rock/blues bianco, dinosauri solo perché i giovani del Duemila poco o nulla sanno di loro, anche perché le loro liriche, una volta tradotte in italiano, perdono di spessore artistico e comunicativo. Sono i loro testi che un vero poeta non dovrebbe mai tentare di tradurre in altra lingua. E chi non conosce l’inglese e lo slang americano si perde un bella fetta di cultura poetica americana.
Il panorama italiano dei cantautori/poeti non manca di rari esempi eccellenti: primo fra tutti Francesco Guccini, la cui capacità espressiva, in un contesto pienamente poetico, è stata più volte messa in risalto e ammirata da intellettuali di grande spessore, e se Umberto Eco dice di Guccini che è uno degli ultimi veri poeti omerici del secolo, non c’è dubbio che così è; ma se si è come San Tommaso e non si vuol troppo credere agli intellettuali, ancor meglio, perché basta andare ad un suo concerto per rendersi conto di quanto questo poeta, o cantapensiero, ha da dire senza ombra alcuna di ipocrisia. Impossibile non ricordare poi Paolo Conte e Fabrizio De André, personaggi non sempre apprezzati dalla critica, da sempre definiti poeti da chi li ha seguiti e li segue, però con un seguito di fan ridotto in alcune stagioni, tanto che la critica musicale, per un certo lungo tempo, li aveva volutamente dimenticati. La morte improvvisa di Faber ha portato, almeno a quest’ultimo, qualche lode strettamente commerciale, ma, non mi risulta che sino a oggi, si sia realmente ri-valutata la portata artistica e poetica del grandissimo Fabrizio De André.
Tra le nuove leve va almeno ricordato Lorenzo Cherubini che se non è un poeta, almeno ha il carisma ingenuo di essere un trascinatore di giovani sulla strada dell’abbattimento delle barriere sociali per mezzo d’una propaganda di fratellanza e di pace; va anche menzionato Piero Pelù, che non si può definire un poeta tout court, perché poeta non lo è mai stato, e che però esprime una certa energia positiva.

In definitiva, la musica è diventata veicolo per la poesia, che altrimenti ai giovani, soprattutto ai più giovani, sarebbe un mezzo espressivo sconosciuto. Il fatto è che le nuove così come le vecchie generazioni hanno scoperto la poesia attraverso la musica, difatti quando poi si entra nell’età della maturità, allora il giovane maturo si scopre a leggere quei poeti citati dai rocker e quasi si meraviglia di sé stesso. Ovviamente non è così per tutti i giovani: è chiaro che se un ragazzo ascolta da mane a sera solamente musica ambient o disco music o la new age, allora inutile sperare anche solo che nell’età della maturità sprechi il suo tempo a leggere un libro di poesie. Innegabile è comunque il fatto che la musica è il veicolo attraverso il quale è possibile comunicare coi giovani di ogni generazione; e i giovani scelgono la musica per esprimere le loro opinioni, non a caso il panorama italiano si aggiorna, day after day, di nuovi cantautori in erba. Non è forse questo il sintomo che la poesia non è morta e che la musica può essere un valido sostegno a tutto favore della comunicazione sociale? Io voglio credere che sia così, anche se solo il tempo potrà confermare se il giovane di oggi sarà il maturo uomo di domani lontano da pregiudizi sociali politici religiosi.

Informazioni su Iannozzi Giuseppe

Iannozzi Giuseppe - giornalista, scrittore, critico letterario - racconti, poesie, recensioni, servizi editoriali. PUBBLICAZIONI; Il male peggiore. (Edizioni Il Foglio, 2017) Donne e parole (Edizioni il Foglio, 2017) Bukowski, racconta (Edizioni il Foglio, 2016) La lebbra (Edizioni Il Foglio, 2014) La cattiva strada (Cicorivolta, 2014) L'ultimo segreto di Nietzsche (Cicorivolta, 2013) Angeli caduti (Cicorivolta, 2012)
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