Passione dannunziana
di Iannozzi Giuseppe
Oh Venere! Dunque, alla fine mi baciaste annegando le passioni mie nella tenerezza Vostra.
Lo stormire, che sbatteva addosso a noi e che Voi quasi pareva non sentiste, s’è quietato in tempesta accogliendo nelle nostre anime l’innamoramento.
Ma…
M’immersi a libare dal Vostro gentil seno nettare degli dèi. Le labbra mai m’erano sazie di Voi, del sapore d’ambrosia tutto disteso nella gentilezza delle morbide curve a nascondersi in ascosi turgori, che mai avrei detto veri se la mia bocca bambina non li avesse addomesticati al desiderio che fu mio quanto Vostro.
Ma non poteva esser tutto lì, l’Amore.
Abbiam consumato la febbre in una morsa che ci ha stretti l’uno all’altra, rendendoci captivi bramosi di catene indissolubili che erano le nostre membra. Le braccia cercavano la santità squisita del Vostro fondoschiena dove la Venere serica quasi pudica riposava; le gambe s’intrecciavano in forgiato anello d’amore e desiderio; le bocche si sfamavano ardenti, ardenti solo di compenetrarsi ancora e ancora; e i cuori sudavano passione ad ogni battito, lasciandoci incuranti del tempo che passava e che noi gridavamo Eternità.
Tremante ambascia nei nostri pulsanti petti menava contro quelle sì tanto stupide ambagi, che furono guerra a due per quest’atto ora consumato. Avidi concedemmo a noi stessi la brama di stringerci, mentre l’eco dei fiati in amor consumati dilatavano sempre più la promessa, ché la felicità non si consuma in un momento, ma s’eterna in ripetersi costante di lune e soli precipitati in confusione all’orto e all’occaso, ad ogni notte, ad ogni dì, stillanti luce prima serotina poi aprica. E gli occhi s’incontravano riflettendo gli ardori.
Ma non poteva esser tutto lì, l’Amore.
Tremanti, mai sazi, piluccavo baci dalla Vostra bocca, ed eran timidi, imprecisi, quasi severi. Ma subito che uno s’era posato in Voi, l’altro era più saporoso e arrendevole, mentre le reni inarcate sotto pesantezza della mia anima agitavano una sazietà, che pareva mai dovesse estinguersi. In quel letto bianco come latte, profumato dei nostri ansimanti sudori, là, un buffetto sulla Vostra guancia arrossata, tenera vellutata pesca matura, Vi regalai. Ed allora, diamantina risata Vi nasceva in petto e tosto saliva, saliva ad inondarVi la gola ed esplodeva limpida, felice d’esser libera, felice di diffondersi in eco. Presto inebriato, Vi soffocavo con un altro bacio premendolo sulle Vostre labbra, cercando la lingua rosea, mentre ancora la risata gioiosa faticava a stemperarsi nell’aere. Inciampando con sicurezza insicura nel calore del Vostro corpo, vellicando il miele sudato dal Vostro caldo corpo, suggendolo per placare indarno la passione, la passione aumentava ad ogni sfiorarsi. In Voi le mie mani scavavano delizie scoprendole, e subito le coprivano quasi per celia col bianco lenzuolo, che scomposto non resisteva all’agitarsi delle nostre anime legate ma non ancora perfettamente. Cercavo la curva del seno per poi scendere nella tenerezza ambrata del ventre smanioso. Benché mi deste di Voi tutto, mai riuscivo a saziare la voluttà. Vi cercavo ancora tra le gambe innamorandomi del mistero della vita, inseguendo la linea delle Vostre gambe tiepide vellutate, sicuro che non era possibile possederVi completamente. Ad ogni morso tirato con la carnale profondità delle mie labbra immerse nel Vostro corpo di latte e miele, una nuova più turgida brama spronava il desiderio a farsi avanti ed osare. Divorato così attendevo, attendevo che foste Voi a scoprir in me il desiderio per infine pacificarlo, consapevole che non poteva essere tutto lì, l’Amore.
E le Vostre mani allora presero il sopravvento osando là dove io temevo d’offenderVi. Gli occhi Vostri s’insediarono nei miei perquisendoli e accecandoli nella passione. Le Vostre gambe, prima contratte in un quasi nervosismo, s’attorsero alle mie in un’unica soluzione distesa, perfetta. E le mani, delicate, mi spinsero prima via. Poi subito mi tratteneste in un indissolubile abbraccio. Mi rovesciaste rendendomi di Voi schiavo a subir la Vostra passione, scavando nel petto mio villoso, lasciando che le labbra Vostre toccassero sentieri a me stesso sconosciuti. Voi, su di me, ammanettaste la mia libertà tiranna per farmi dono della Vostra. Mi seppelliste nella gravità composta della Vostra ricerca palpando la vita pulsante, ma nascosta sotto la rudezza d’esser semplicemente un Adone. E così mi lasciaste libero nella schiavitù di Voi Donna per restituirmi a me, per avere accanto, finalmente, un Uomo, e non un paroliere o un semplice inutile amatore. Scopriste che la fonte del mio desiderio era anche lagrime, che Voi amavate suggere sussurrandomi dolcemente, “vergogna non c’è per due Anime che s’amano come fossero una sola.”
M’insegnaste ciò che l’alma mia paventava: esser uomo con un cuore sanguinante lagrime di felicità.
Oh Venere! Voi m’insegnaste che la donna è donna con un uomo accanto e che l’uomo è uomo insieme alla sua donna. E che da soli, nascosti nei vocativi “Oh Venere! Oh Adone!”, valgono solo il tempo del corteggiamento.
Così ci conoscemmo.
Così ci amammo.
Così fummo Uomo e Donna, Donna e Uomo, un’unica sola Promessa.
Così fummo.
E ci innamorammo completamente, superando il corteggiamento e l’innamoramento.
Così la tempesta fu perfetta. Completamente innamorati.
Sì, questo è tutto quel che c’è da sapere in amore.
Mia Cara Donna, così siamo.
A Te, ora m’inchino senza vergogna alcuna, lasciando che l’amor suggelli la Promessa d’esser noi nudi l’uno di fronte all’altra, fieri della nostra nudità che è Anima.