“Il padre infernale”. Novella sulla violenza domestica – di Iannozzi Giuseppe

Il padre infernale

di Iannozzi Giuseppe

l'infernale Quinlan - immagine originale ritoccata

“E’ morto, morto…”, ciacolava allegra l’Adelaide attorniata da certe sue comari, vecchie e grasse, ma ancor assai spregiudicate, che mai disdegnavano di tenersi bene informate degli affari altrui.   Quel che era stato il Ducetto, così soprannominato per la sua spocchia, giaceva nel letto nuziale della moglie, brutto, tale e quale a com’era da giovane. Neanche la morte, clemente quasi sempre coi reietti più duri, s’era presa il disturbo di distendergli un minimo i lineamenti, conferendogli così una seppur lieve apparenza di santità.
“L’avete visto?”, s’informava Clelia, con indosso un completo sorcigno, inadeguato alla sua età ben oltre gli ottanta: “E com’è… e come non è? Ma morto è all’improvviso, Dio mio! Pareva un diavolo all’impiedi sino all’altro giorno. L’avete visto voi?”
“No no, che visto e visto! E’ dentro, al primo piano”, spiegava, con somma pazienza, l’Adelaide, la portiera dello stabile, che di tutti sapeva morte e miracoli prima che questi arrivassero all’orecchio di San Pietro: “E’ così però. L’ho sentita io alla moglie che lo diceva.”

“A chi?”, le comari in coro: “Certe cose bisogna saperle!”
“Mah, non so; ma morto è morto. Per caso, per puro caso l’ho saputo. Non sono mica io un’impicciona!”, si difendeva l’Adelaide, prima che qualcuno potesse farle notare ch’era invece vero il contrario. “Scendevo quieta quieta le scale e da dietro la porta della famiglia Lauro ecco, d’improvviso, la notizia”, sputò tutto d’un fiato, fissando le facce delle comari per godersi appieno le reazioni.
“Addolorata era?”, vollero ancora sapere le donne.
“E chi lo sa!”. E avrebbero continuato così per una lunga pezza, non fosse stato che in lontananza scorsero per tempo arrivare il parroco claudicante, non un barbagianni ma non un bel vedere in ogni caso, almeno a detta della portiera che mal sopportava gli uomini di chiesa, sicché tutte s’erano segnate in fretta e furia chinando il capo, non contrite, meste però sì: la bella chiacchierata intavolata rovinata sì presto da quel dannato ministro di Dio.
Senza badare alle donnette raccolte sotto il balcone dei Lauro, Don Francesco gli fece segno di scansarsi e basta; e questa fu tutta l’importanza che dedicò loro. Una volta che fu passato, le donne sfuriarono, qualcuna maledì il prete, altre bestemmiarono seppur in maniera sommessa; un prete, nero, disgrazia porta seco, sì sa, e asino chi dice di no, questo pensavano levando al cielo bisbigliati improperi.
Don Francesco bussò alla porta dei Lauro che subito gli fu aperta da una vecchina ingobbita dagli anni e dalla tanta sofferenza patita: “Per di qua, prego. Per di qua… prego, prego”.
Il parroco tosto riconobbe Fernando il Ducetto. Nonostante fosse abituato a simili uffizi, guatando il Ducetto non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto: era morto, certo che sì, ma il volto pareva volesse contraddire la giustizia di Dio. Soltanto per il fatto che il petto non s’alzava e non s’abbassava più lo si poteva dire andato; la faccia invece, quella pareva cosa viva, più maligna e cattiva di quando Fernando, ubriaco marcio, si recava in chiesa per chiedere al Signore che sempre lo proteggesse. Se lo ricordava bene Don Francesco il Fernando: entrava in chiesa, si segnava sbrigativamente, poi in ginocchio davanti al Cristo pregava per sé, chiedendo, anzi pretendendo che il Signore lo mantenesse in salute fino a cent’anni e più. Un egoista, come pochi gli era capitato d’incontrare; e a dire la verità tutta, l’unico che appieno s’era meritato il nomignolo che in paese gli avevano giustamente affibbiato. Mai una preghiera per la moglie o un pensiero per i figli: più che mai convinto era che lui fosse il centro dell’universo. E mai una volta che si fosse confessato; solo accendeva, prima di levarsi di torno, una misera candela, la più piccola; e nella cassetta delle elemosine mai una mezza Lira.
“Per di qua, per di qua”, continuava a ripetere la vedova, sebbene al capezzale c’erano già; non i figli però, che forse ancora non sapevano o, senza pensarci su, avevano deciso di non omaggiare quell’uomo, che l’amor d’un padre non aveva loro mai dimostrato se non con cinghiate belle forti su gambe e spalle fino alla maggiore età.
Più fissava il volto del morto e più Don Francesco si rallegrava di non aver mai avuto alcun dubbio circa la sua vocazione. Aveva da poco superato la mezza età e di uomini ne aveva conosciuti tanti e nessuno gli era mai piaciuto granché: i più erano meschini, pieni di sé, incapaci d’amare una donna nella maniera che si conviene. Fernando però era stato il più infernale di tutti: Antonia non aveva avuto un solo giorno di serenità; a suon di botte il marito le aveva categoricamente proibito di recarsi in chiesa, di avere delle amiche, di uscire per distrarsi, ogni svago insomma; una reclusa in casa era stata, per anni e anni. Non che nel corso degli anni, quando s’era ancora in tempo, non la si fosse consigliata, per il suo bene, di lasciare Fernando; ma lei sempre s’era opposta e non per amore verso un uomo che davvero non poteva esser amato; temendo il rimprovero del paese – un divorzio addirittura! –, la poveretta aveva sopportato le angherie del marito, convinta che se lo avesse lasciato avrebbe rischiato di perdere gli amati figli. Verità è che la donna temeva le malelingue più delle botte del marito, cosicché alla fine si risolse di rimanergli accanto “finché morte non ci separi”. E quanto aveva dovuto aspettare perché il Ducetto tirasse finalmente le cuoia, era difatti un osso duro nonostante diversi acciacchi e una innata ipocondria che sfogava con belluina violenza contro chiunque gli capitasse a tiro.
Aveva adesso Antonia quasi ottant’anni suonati: dello splendore giovanile, la povera donna non conservava più alcunché; tanti, troppi anni a subire in silenzio l’avevano resa infelice nel corpo e nello spirito, sceverandola infine anche della vista; la poverina ci vedeva a fatica, colpa delle cataratte e d’una forte miopia mai tenuta sotto controllo, perché Fernando al solo sentir nominare oculisti e ottici piantava l’inferno, sicché, alla fine, Antonia chiuse gli occhi, per così dire, e seppur mezza cieca, rassegnata continuò a sbrigare in casa e fuori, sempre a comando del Ducetto.
Don Antonio provò un’infinita pena per la vecchina: tardi, troppo tardi Dio s’era finalmente ricordato di svellere dal corpo di quel suo figlio, venutogli proprio male, l’anima infernale e malata perché fosse l’Inferno a rosolarla ben bene.
Doveva benedirlo? assolverlo? Di minuto in minuto il disgusto gli cresceva in petto: assolverlo, benedirlo; e perché mai? E poi: era forse questo che la vedova s’attendeva da lui?
Non sapendo come trarsi d’impaccio, buttò lì: “E i figli, loro non sanno, non vengono?”
Senza cercar di mascherare una certa contentezza nella voce, Antonia gli spiegò che i figli no, non desideravano vedere il morto e che però, poco ma sicuro, entrambi l’avevano rassicurata perché sarebbe subito andata a vivere con loro una volta espletate le formalità relative al funerale.
“Capisco, capisco…”. E non aggiunse altro. Di rimproverare la povera donna non ne aveva proprio cuore, né si sentiva di pensar male di quei figli che desiderio non nutrivano verso un… Oddio!, nemmeno lui, a dire il vero, avrebbe voluto essere al capezzale di quel dannato. S’affretto dunque a recitare alcune parole astruse, tanto la povera Antonia il latino non lo conosceva, e con gli occhi gravidi di pena rassicurò la vedova che il funerale sarebbe stato celebrato subito, anzi subitissimo.
Antonia non sapeva come ringraziarlo. Balbettava, per la prima volta felice dopo tanti anni di sofferenze.
Prima di togliere il disturbo, Don Francesco, sulla porta rassicurò ancora una volta la povera vecchina che il funerale sarebbe stato veloce e indolore. Così disse: “Facciamo una cosa veloce, indolore. Le sta bene, Signora Antonia? Meglio così, una cosa senza clamore, come piace a Dio, così poi finalmente libera è.”
Antonia scoppiò in un pianto liberatorio. Di fronte alle lacrime della povera donna, Don Francesco comprese d’aver accontentato la giustizia umana e quella cristiana nel modo più semplice e risolutivo possibile.

Come promesso il funerale fu una cosa vuota senza alcun codazzo al cimitero, eccetto per una paio di veci curiosi e alcune comari capitanate da una pomposa Adelaide, che però tagliarono presto la corda visto il mortorio che si respirava.
Finito che ebbero di seppellire cassa e morto, i becchini si trassero in disparte, più schifati che annoiati: per quanti sforzi facessero di non pensarci, non gli andava giù affatto che in terra consacrata ci fosse uno che non meritava quel privilegio. Fu infine posta una più che modesta lapide, con una fotografia piccolina davvero del defunto affinché non attirasse la morbosa curiosità di qualche sprovveduto di passaggio. Durante l’uffizio funebre, con voce spenta, Don Francesco disse poco o niente, e questo piacque ad Antonia che pure lei, al pari dei becchini, non vedeva l’ora di allontanarsi da quel disgraziato punto del cimitero.

Informazioni su Iannozzi Giuseppe

Iannozzi Giuseppe - giornalista, scrittore, critico letterario - racconti, poesie, recensioni, servizi editoriali. PUBBLICAZIONI; Il male peggiore. (Edizioni Il Foglio, 2017) Donne e parole (Edizioni il Foglio, 2017) Bukowski, racconta (Edizioni il Foglio, 2016) La lebbra (Edizioni Il Foglio, 2014) La cattiva strada (Cicorivolta, 2014) L'ultimo segreto di Nietzsche (Cicorivolta, 2013) Angeli caduti (Cicorivolta, 2012)
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6 risposte a “Il padre infernale”. Novella sulla violenza domestica – di Iannozzi Giuseppe

  1. furbylla ha detto:

    sei riuscito a rendere benissimo, a far diventare del lettore la sensazione di fastidio e distacco verso un tal essere. La morte spesso non è giustizia sufficiente anche perchè spesso tardiva…
    Buongiorno 🙂
    cinzia

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  2. Iannozzi Giuseppe ha detto:

    Il ritratto è quello di un padre e marito padrone, dove la giustizia, come hai letto, tarda ad arrivare. Ci sono poi tanti altri aspetti socio-borghesi che ho analizzato, ma forse te le sei persi. 😉 Così come non hai notato lo stile particolarissimo che ho adottato. Vabbe’. 😉

    Bacione e buondì

    beppe

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  3. furbylla ha detto:

    invece ti sbagli , la prossima volta farò una critica dettagliata 😉
    cinzia

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  4. Iannozzi Giuseppe ha detto:

    Sì, sì, ci credo. Come no. 😀

    Vedi, quando mi leggi trovi sempre che non sono uguale a come mi avevi letto precedentemente.

    bacione

    beppe

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  5. tuA ha detto:

    mahhhhhhhhhhhhh

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  6. Iannozzi Giuseppe ha detto:

    Ma, cosa?
    Secondo me hai capito poco o niente di questo racconto, difficile sì, perché scritto in alto stile.

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