Mao il Fascista Rosso
Racconto surreale à la Ed Wood
di Iannozzi Giuseppe

il libretto rosso di Mao
La prima volta che ho incontrato Mao detto il Fascista Rosso, fu in un locale equivoco frequentato da castori e marmotte. Mao era già completamente brillo, e io ero l’unico a essere del tutto lucido. Mao s’abbracciava a un castoro che gli mostrava i denti: in risposta, il povero castoro riceveva grandi sorrisi accondiscendenti.
Io non ci avrei fatto caso a quel tizio lì, ma lui subito si fece appresso a me, abbandonando il castoro e allungandomi la zampa amputata del povero animaletto: “Piacere!”
”Piacere, di che? Chi diavolo ti conosce?!”
“Appunto.”
“Non la capisco. Non ho preso alcun appunto.”
”Appunto.”
Lo guardai storto: era chiaro che era uno dei servizi segreti del corpo dei Fascisti Rossi, in pratica un completo fallito ma pericoloso quanto e più di Stalin.
“Per favore, mi tolga da sotto gli occhi quella zampa. Mi fa orrore e tristezza.”
”Animalista?”
”No.”
”E allora, perché la disturba?”
“Forse perché con quella zampa il castoro – che adesso sta affondando i denti nel legno del bancone, tentando d’arginare il dolore –, fino a pochi momenti fa, ci si grattava e veniva pure bene: è bianca di tracce di piacere grosse come sputi.”
“Per così poco!”
”Lasci giudicare a me se è poco.”
“Lei è il solito invasato: in ogni sputo di sperma ci trova l’ombra d’un apocalittico complottismo.”
Lo guardai storto, un’altra volta: era chiaro che mi trovavo davanti a un malato di mente, a uno che ascolta solo inni e marce staliniste.
“No, io non trovo mai niente, men che meno in lei.”
“Intende forse dire che mi trova insignificante?”
”Solo insignificante. Senza dire che la ‘trovo’. Così mi suona meglio.”
“Quindi lei mi sta dicendo ‘insignificante’.”
”Se vuole metterla così, sì.”
“Le sto antipatico?”
“Dopo quello che ha fatto a quel castoro, sì.”
Mao il Fascista Rosso, a questo punto, si cacciò la zampa amputata del castoro in tasca.
“Lei lo sa chi sono io?”
“Chi è lei?”
“Mao.”
“Ahhh…”
“Il Fascista Rosso.”
“Ahhh…”
“Dalla Cina con furore!”
“Ahhh…”
“E ho scritto il libro perfetto, ‘Il libretto rosso della sottomissione’.”
“Adesso sì che mi è tutto molto ma molto più chiaro: lei è quel Mao, il Fascista Rosso che ha scritto quella gran porcata.”
“Esatto. Ora capisce pure lei!”
“Sì, capisco che lei stasera ha alzato il gomito. E ha l’alito pesante, lo sa? Non mi stia con la bocca incollata sulla faccia.”
Ad un certo punto ha aperto le cataratte, e giù lacrime come Dio comanda: “Lei deve sapere che questo libro, ‘Il libretto rosso della sottomissione’, è il libro perfetto e il Critico non se l’è cagato nemmeno di striscio, non una parola.”
“Il Critico?”
“Già, il Critico. Adesso capisce pure lei perché sono tanto addolorato. Per smorzare il dolore non posso fare a meno d’amputare arti a castori e marmotte che incontro sulla mia strada.”
“Psichedelico!”
“Il libro, l’ha letto?”
Glissai limitandomi a sparare un falso complimento: ”Psichedelico, un Charlie Manson che se la prende con gli animali!”
“E ascolto pure Gimn Sovetskogo Sojuza, fino all’ultima nota.”
“Ci avrei scommesso che lei era uno di quelli lì. Vizioso!”
”E ho pure tutto il repertorio dell’Armata Rossa su vinile.”
“Bravo. Immagino che ogni volta che amputa una zampa sente le note dell’Armata Rossa nella sua scatoletta nera.”
“Sì, giusto, sento le note che mi frullano in testa come un’ossessione. E lei come fa a saperlo?”
”Ho tirato a indovinare.”
Mao si fece pallido come un cencio: “A indovinare?”
”Sì, mica è un peccato.”
Biascicando: “Oggi è così che si fa la critica, tirando a indovinare.”
“Io non sono un critico.”
“Lei mi fraintende. Certo che lei non è un critico, ma io sì, sono pure un critico per hobby, modestamente. Insomma, ci sono rimasto perché lei tirando a indovinare ha capito subito che io per fare critica tiro a indovinare. Ecco!”
“Le ho fatto credere questo? Mi par strano, ma se lo dice lei che è il Fascista Rosso ed è pure un critico, mi sa che sono costretto ad ammanettarmi il cervello e di conseguenza a darle ragione.”
“Bravo, faccia così. Ma perché non ci mettiamo comodi?”
“E’ una proposta indecente? Come la devo intendere?”
“No, non mi fraintenda. Intendevo, di metterci a nostro agio:”
E così fu che ci mettemmo a nostro agio: Mao il Fascista Rosso svolazzò sul suo trespolo – sì, proprio sul suo, con tanto di targhetta, ‘riservato a Mao il Fascista Rosso’ –, mentre io m’accontentai d’una più classica sedia.
“Prende niente?”
“No, grazie. Per stasera ho dato.”
“Offro io. Baristaaa!!!”
“No, glielo assicuro, per me niente. Ma come se avessi accettato.”
“Come vuole lei.”
Arrivò il barista a prendere l’ordinazione del Fascista Rosso: “Per me uno doppio, del solito.”
“Signore, lei non è un cliente abituale…”
“E allora? Solo perché non sono un abituale non mi posso permettere di prendere il solito doppio? C’ho pure il trespolo, che mi son portato da casa mia.”
Rassegnato il barista crollò il capo: “Come vuole lei, Signore. Vodka doppia, senza ghiaccio.”
Dal suo trespolo, il Fascista Rosso cominciò a sfogarsi in una lunga geremiade: “Il fatto è che il Critico non m’ha cagato manco di striscio, e io per ‘sto fatto ci sono stato male e ci sto male ancor oggi. E’ che non mi rassegno: sono fatto così, sono uno dal cuore tenero. Ecco, io credo d’essere il centro dell’universo, ma non per presunzione: è che sono il centro, e lo vedono tutti che è così. Ma quello lì, il Critico, niente… m’ha ignorato: glielo dico io che cos’è quel critico, è un ateo, un senza dio.”
“E allora? Anche se fosse un ateo, mica ha fatto del male a qualcuno!”
“Non ha fatto male a nessuno? Mi ha ignorato, non ha speso una sola parola per il mio lavoro di mano.”
“Non era tenuto a farlo.”
“Anche lei è dalla parte di quello stronzo.”
“E poi sarei io l’apocalittico che soffre di manie e smanie di complottismo.”
“Sì sì, adesso mi vorrebbe far credere che lei non lo conosce il Critico. Io però l’ho capito subito che lei è uno dei suoi scagnozzi.”
“Da quando in quando i critici avrebbero gli scagnozzi al loro servizio? E’ già tanto quando si possono permettere una cicca e una puttana per una notte, e lei mi viene a parlare di scagnozzi.”
“Vede, vede che è come dico io: lei sa troppe cose.”
“No, io non so proprio niente. So solo che i Critici Professionisti si beccano tutta la merda di questo mondo, mentre gli scrittori, quelli che si dicono tali, avanzano pretese assurde…”
Interrompendomi: “Non m’inganno, non m’inganno, lei è del ramo, è sul ramo… pappagallo, pappagallo, pappagallo!!!”
Interrompendolo a mia volta: “No, si sbaglia: il trespolo è suo e non mi permetterei mai. Se l’è portato persino da casa tanto c’è attaccato. Rimanga pure comodo. E io, tanto per capirci, sono un idraulico specializzato in tubi. Giro il mondo, come Faussone, detto Tito.”
“Come chi?”
”Come il protagonista de ‘La chiave a stella’: Quanto è ostinata l’illusione ottica che ci fa sempre sembrare meno amare le cure del vicino e più amabile il suo mestiere!” (*)
“L’ho già sentita questa cosa qui.”
“Ha vinto il premio Strega, nel 1979. Lo Strega è importante, mica robetta.”
“Sì, sarà, ma a me quelli che prendono lo Strega mi stanno sullo stomaco. Anzi, proprio non li posso digerire neanche allungati con della sana acqua sorgiva.”
“Secondo me lei è invidioso.”
“Invidioso? E di che, di chi? Io ho scritto il più bel saggio degli ultimi cento anni. Figurarsi se me la prendo perché non m’hanno mai segnalato al premio Strega. E poi, lei che ne vuol capire? lei che è soltanto un idraulico?”
“Sì, ha ragione, io di letteratura non ne capisco un tubo. Però sono specializzato in tubi. Dovrà pur significare qualche cosa.”
“Che è specializzato.”
“Per l’appunto.”
Fra noi due irruppe il silenzio.
“A proposito, non le ho chiesto ancora il suo nome.”
“Non me la sono presa, glielo assicuro.”
“Quindi non me lo dice il suo nome.”
“E a che le servirebbe? Io sono un idraulico specializzato in tubi e fognature di lungo corso. Direi che è abbastanza. Anche se le dicessi, per assurdo, che sono un parente alla lontana di Alessandro Magno, dopo?”
“Dopo, che?”
“Niente: è questo il punto. Tanto vale che lei non lo sappia il mio nome. Non se ne farebbe niente.”
Ci ha pensato su, poi ha acconsentito col capo, ma glielo si leggeva in faccia che non era convinto. Nell’intanto il barista era tornato con un vassoio in mano: “Il suo solito, doppio!”, sputò lì, proprio addosso a Mao il Fascista Rosso, con malcelato sarcasmo.
Mao prese il bicchiere, senza curarsi d’appurare cosa ci fosse dentro: sul suo bel trespolo, se lo tracannò senza batter ciglio. Poi se ne uscì fuori con una richiesta che al barista parve assurda: “Non è che potreste mettere sul piatto l’opera omnia dell’Armata Rossa?”
Il barista gli sgranò gli occhi addosso: “No, Signore. Mi spiace, ma l’Amata Rossa non è cocktail che io conosca.”
Mao scosse il capo, profondamente rattristato: “I cori dell’Armata sono dei classici della grande musica rivoluzionaria.”
Il barista rimase con gli occhi sgranati: “No, non conosco questi dell’Amata. Però ho Marilyn Monroe.”
“Marilyn?”
“Sì, un classico che non passa mai di moda. Pensi che ha cantato persino per il presidente John F. Kennedy.”
Il Fascista Rosso fece finta di capire, di fare mente locale, ma niente: Marilyn era un nome che non gli diceva nulla. Però quel Kennedy, quello lo conosceva, per fama.
“Se a Kennedy è piaciuta ‘sta Marilyn, piacerà pure a me che sono Mao.”
Il barista azzardò un sorriso: “Le faccio mettere su un suo classico, Diamonds are a girl’s best friend?”
“Sì, d’accordo. Però a volume moderato, mi raccomando.”
Il barista gli sorrise in maniera indecifrabile e portò via le chiappe. Dopo un paio di minuti, Diamonds Are a girl’s best friend, la voce di Marilyn si diffuse nel locale.
“Non è male.”
“Sì, è carina.”
“Però non è all’altezza dei cori dell’Armata Rossa.”
“Lo credo bene, la Marilyn è la Marilyn, la più figa tra le fighe di tutti i tempi. La sua diavolo di Armata non può competere con lei.”
Mao storse il naso: “Lei mi sa che è uno di quelli fissati con la figa. Ce l’ha in testa la figa. Forse mi sbaglio…”
“No, non si sbaglia: io amo le donne. Lei no?”
“Sì”, si affrettò a confermare Mao.
“Sa, io leggo poco, però quando leggo, da un libro pretendo che dentro ci sia anche una componente dionisiaca, altrimenti m’annoio.”
“Perché me lo dice?”
”Così, per non far morire nel nulla la conversazione. Non troppo tempo fa, non ricordo bene dove, ho incontrato una tizia che si faceva chiamare Vargas. Be’, questa signora m’ha detto, in un orecchio, che nessun assassino dovrebbe mai conoscere i peni della prigione.”
“E che significa?”
“Non lo so.”
“E allora perché l’ha ripetuto a me?”
“Lei è uno scrittore, e pure un critico – a tempo perso? – così m’è parso di capire: speravo potesse aiutarmi a capire.”
“Io non so niente. So solo che il 5 marzo del 1953 è venuto a mancare il capo dei capi, Iosif Vissarionovič Džugašvili meglio conosciuto come Stalin.”
“Ha partecipato alle esequie del Baffone?”
“Certi figli di buona donna hanno pensato di non invitarmi. Hanno sparato che sono un pappagallo e con questa scusa, con questa scusa che non ho mai capito, non ho potuto baciare sulle labbra io mio unico amore, Stalin.”
“Perché mi racconta del suo amore con il Baffone buffone? Non c’entra niente col discorso iniziato. E io ci capisco ancor meno di prima.”
“Sta facendo della satira, così mi par di capire.”
“Satira? Di preciso non saprei, questo glielo dico proprio come fossi suo amico. La satira è una cosa complicata, quindi io accantonerei qui e parlerei di tubi.”
“Lei sta facendo della mitopoiesi!”
“Be’, se è lei a dirlo, credo che possa esser così, anche se devo avvertirla che io di mito ecc. ecc. non ci capisco granché. Tuttavia, una volta ho avuto a che fare con uno che voleva che gli tirassi tubi per una lunghezza di cinque chilometri. Io gli spiegai che si trattava d’un lavoro lungo e difficile. E lui ha ribattuto che gli andava bene, purché facessi presto. Al che ho cercato di fargli capire che ci avrei impiegato parecchio tempo. E lui ha ribattuto che gli andava bene, purché facessi bene! Allora sono stato costretto a puntualizzare che io, da solo, quel lavoro non potevo farlo, e che non potevo dargli né una data né una sicurezza perché coi tubi non si sa mai come va a finire… Alla fine i tubi glieli ho tirati per tutti e cinque i chilometri, impiegando cinque anni esatti, di lavoro: il problema è stato che i tubi nel giro d’un mese erano pronti, ma poi sono intervenuti altri fattori, soprattutto di tangenti. Ognuno voleva la sua fetta di torta per quei cinque chilometri di tubi.”
“Ma avevano dei diritti a vantare su quei cinque chilometri?”
“Sui tubi no, sui cinque chilometri forse, perché adesso ci passa il petrolio in quei tubi che sono lunghi abbastanza.”
“E il petrolio da dove verrebbe?”
“Da una buco nel terreno, che è in mezzo al deserto.”
“Insomma una storiaccia come quella che Pasolini ha abbozzato nel suo ultimo romanzo, ma mai terminato, ‘Petrolio’.”
“Non ho mai letto questo Pasolini.”
“Allora avrà letto sicuramente ‘Innocente per forza’.”
”No, proprio per niente. Perché me lo chiede?”
“Perché c’è tutta quella mitopoiesi che Pasolini aveva accennato in ‘Petrolio’, petrolio che è poi confluito in ‘Innocente per forza’ di Cesare Battisti, un libro che ho fortemente voluto. Che ho spacciato al meglio delle mie possibilità in ogni angolo critico e acritico e acrilico.”
“Non è chiaro, ma forse è colpa della mia ottusità: io sono soltanto un idraulico specializzato e non uno scrittore, un PAC, un terrorista, un assassino, etc. etc.”
“Ha ragione, ha ragione.”
Rimanemmo in silenzio ad ascoltare Marilyn Monroe: “A kiss on the hand may be quite continental/ But diamonds are a girl’s best friend/ A kiss may be grand but it won’t pay the rental/ On your humble flat or help you at the automat/ Men grow cold/ As girls grow old/ And we all lose our charms in the end…”
“Questa canzone mi sta torturando: sono dieci volte che la fanno passare.”
“A me non dispiace: certo non è Billie Holiday, ma bisogna sapersi accontentare. In fondo pure lei fa parte del Grande Progetto.”
“Quale?”
“Ma come, quale? Quello della Mitopoiesi, ovviamente.”
“E ‘Il libretto rosso della sottomissione’?”
“Ovviamente è mitopoiesi.”
“Le devo confessare che io quel libro l’ho letto per sbaglio.”
“In che senso?”
“E’ andata pressappoco così: ero andato in libreria per comprare ‘Cento colpi di spazzola’ di Melissa P., ma tutte le copie erano finite. Esaurite. Sold Out. E’ stato il cassiere, annoiato, a rifilarmi ‘Il libretto rosso della sottomissione’, assicurandomi che m’avrebbe tenuto il morale alto. Così non è stato. M’ha buggerato. Ma la colpa è stata mia: avrei dovuto capirlo che mi stava rifilando ‘na sola, ce l’aveva scritto in faccia, su quella sua faccia annoiata e schifata.”
“L’ha dunque preso per sbaglio…”
“Effettivamente sì, per sbaglio. M’ha molto annoiato. E’ finito nella Top 100 dei libri più schifosi che abbia mai letto.”
“Nella Top 100?”
“Sì. Il fatto è che io ho letto due libri in tutta la mia vita.”
“E allora perché l’ha chiamata Top 100?”
“Che io sappia, non s’è mai vista una Top 2.”
“Capisco.” E con quel capisco detto con un filo di voce, praticamente un pigolio nella strozza, Mao l’ho visto cadere in profondissima depressione caspica.
“Ho letto ‘Il libretto rosso della sottomissione’ e ‘Il mio primo libro di catechismo’, questi i soli libri della mia vita. Ma, in tutta sincerità, il catechismo è molto meglio del suo saggio, per quanto io capisca poco o niente di letteratura, praticamente un tubo. Però uno che è ignorante come me, sì, pure uno che ignorante come me lo capisce subito quando un libro è noioso e quando invece no. Il suo m’ha spinto sul baratro della più profonda depressione: non le dico quante sedute psicosomatiche per venirne fuori.”
Il Fascista Rosso tacque rassegnato, depresso, quasi rischiava di cadere dal trespolo dove s’era bene accomodato in punta di culo.
“Lei non ha letto due libri, di questo sono certo anche se tutto il resto m’è di confusione assoluta… Lei mi fa becco”, biascicò.
Lo lasciai così, lì, da solo, mentre la voce di Marilyn continuava a torturarlo.
Dopo aver conosciuto l’uomo che aveva scritto il libro più noioso del mondo, incontrai il Critico, quello che aveva snobbato ‘Il libretto rosso della sottomissione’. Ci incontrammo per puro caso: lui, semplicemente, aveva bisogno che gli sturassi il lavandino e consultando le Pagine Gialle pensò di chiamare proprio me. Arrivato a casa sua non potei fare a meno di notare che sul campanello c’era scritto, IL CRITICO. Ho suonato due volte esatte e me lo sono trovato davanti. Sono dunque entrato nel suo appartamento: e subito ho visto una copia intonsa di ‘Il libretto rosso della sottomissione’, una copia abbandonata in un angolo. Io sono uno che certi particolari li nota subito, e subitissimo, per filo e per segno, compresi.
“Lei è il Critico.”
“Può dirlo forte.”
“L’ho capito subito. La targhetta sul campanello di casa.”
“Sì, non tutti sono acuti come lei. Spero sappia sturare bene i lavandini.”
“Sono il migliore su questa pazza piazza.”
“Sì, certo, come no!”
“Posso farle una domanda imbarazzante prima di mettermi al lavoro?”
“Sputi!”
“Ho visto che ha una copia di quel libretto di Mao il Fascista Rosso: l’ha letto?”
“Ah! Sì, l’ho letto. Perché me lo chiede?”
“Pochi giorni fa ho incontrato l’autore.”
“E allora?”
“Abbiamo parlato. O meglio, è stato lui ad attaccare bottone con me.”
“Bene. Mi sembra che non ci sia nulla di male.”
“Il fatto è che m’ha parlato di lei.”
“Immagino.”
“Non sembra che la cosa la turbi.”
“No, non mi turba affatto: sono sulla bocca di tutti. I rischi del mestiere.”
“Capisco. A ogni modo, Mao il Fascista Rosso s’è lamentato con me che lei non l’ha cagato manco di striscio.”
“Non ero obbligato.”
“Sì, è quello che ho cercato di fargli capire pure io.”
“E alla fine non ha capito.”
“E’ come dice lei: pretendeva che lei se lo cagasse. Assurdo.”
“Assurdo”, ripeté Il Critico – che aveva un naso esageratamente grande, lungo come il becco d’un pappagallo.
“Ma le è piaciuto il libro di questo Mao il Fascista Rosso?”
“Se mi fosse piaciuto non starebbe in quell’angolo a tappare un buco.”
“C’è un buco in quell’angolo?”
“Sì. Un buco occupato da alcuni maledetti topi grossi come salmoni. Sono sicuramente dei topi che hanno subito qualche alterazione del DNA. Me ne occuperò a tempo debito, dopo che lei m’avrà sturato il lavandino. Per adesso il libretto di Mao può bastare: quei bastardi non ce l’hanno mica il coraggio di rosicarsi quel libro! Lo temono più dell’Inferno. In fondo in fondo il lavoro di quel Mao è servito a qualcosa. Domani, se mi alzerò col piede giusto, magari gliele scrivo due righe. Adesso però si occupi del lavandino… Le faccio strada.”
Segui il Critico senza osare più un’altra inutile parola.
Per la cronaca, dal tubo di scarico di quel lavandino ho tirato fuori la zampa d’un castoro, e altre cose così. Porco cane! Brutta storia, brutta storia davvero, da qualunque lato la si voglia considerare.
(*) Citazione da “La chiave a stella”, Primo Levi
Un vecchio racconto, ma ricombinato in maniera nuova, indi per cui nulla ha più a che vedere con il vecchio racconto dal quale è stato ricavato.
Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale
Buona lettura
beppe
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